Ecco di seguito i racconti che i Volatori Rapidi hanno pubblicato sulla rivista culturale Terre Verdiane.

Da qualche mese infatti collaboriamo con la rivista, che dedica una pagina ai nostri racconti, scritti non a una, non a due, ma bensì a tre mani: una vera e propria sfida per noi, quella di strutturare e soprattutto far funzionare una storia scritta in tre e in poche battute. L’abbiamo vinta? Ai lettori l’ardua sentenza.

Buona Lettura!!

  • PRIMO RACCONTO (di Ottavio Torresendi, Federico Puorro e Angelo Calza)

1995 Km da Santiago
4300 battute 3 scrittori di cui uno sono io e un testimone da passare per raccontare una grande avventura la nascita dei Volatori Rapidi e del loro primo libro. Partiamo subito. Tutto è nato da un errore di quelli da matita rossa. Lo fecero quelli della Porsche ma vai tu a spiegare a un tedesco che ha sbagliato. Per la precisione di errori ne fecero tre invitarci al loro concorso letterario,darci da mangiare e comunicarci che eravamo esclusi dalla finale con i 33 indirizzi mail in bella vista. Copia, incolla e una prima mail era partita. Io pensavo adesso mi arrivano 33 vaffa…..e invece no. Siamo andati a mangiare una pizza. Con uno che all’inizio della cena si chiamava Luigi Tuveri e alla fine in un libro che aveva in mano era diventato Lewis Fucile. Alla fine di altre cene nessuno era più lo scrittore di prima. Qualcuno come me era semplicemente ingrassato qualcun altro stava già pensando perché non facciamo un libro insieme. Per farlo siamo andati a 1995 km da Santiago che poi è l’ostello del mio amico Biffo sulla Via Franchigena. Tieni il pc Federico ora tocca a te.
Ecco Ottavio, tutto sudato, che correndo mi passa il testimone: un notebook. Anche Ottavio ha un fisico da scrittore come noi. Io, Angelo ed Ottavio siamo tre grossi scrittori, principalmente come stazza. Siamo scrittori di peso, e che peso. Per sentirci più leggiadri ci chiamiamo VOLATORI RAPIDI. Da trentatré siamo rimasti in diciassette a scrivere il primo volume (1995 KM DA SANTIAGO). No! Non toccatevi. Il secondo (CONFINI) l’abbiamo scritto in sedici, non senza rimpianti dell’unico auto escluso. Perché ti sei auto escluso allora? Il primo libro miete, ancora oggi, premi su premi, soprattutto quelli campagnoli, appunto. Molti Volatori vincono o vengono menzionati a concorsi letterari e non sempre positivamente.
Con una invenzione che tutto il mondo, e non solo, ci invidia: lo Speed Date Letterario, siamo stati al Festival Letteratura di Mantova nel duemilaotto. Organizziamo e partecipiamo a eventi culturali. Non ci fermiamo mai. speriamo di non andare a sbattere.
Ho esaurito le mie battute in tutti i sensi e sono un po’ esaurito anch’io. Piano, piano porto il testimone ad Angelo, tutto avvolto nel suo paltò multi color, che fa tanto PACE nel mondo, quella vera, delle miss Italia (è una battuta!), non quella che disattendono sempre i vari politici di turno. Sbuff! Sbuff! Fiaton! Fiaton! Quanto pesa questo notebook: è una sottomarca. Perché sono anche un po’ no global e ne sono fiero.
Ecco Federico col testimone. Come ultimo mi tocca lo scatto finale, mi lancio dunque in un improbabile riassunto in apnea del nostro primo libro. Il primo racconto parla di una ragazza che sente le finestre suonare e smette di suonare nel secondo c’è uno che vuole imparare le cose mangia dei libri e si incendia la biblioteca nel terzo uno muore perché parla con degli uomini col cappello davanti alla stazione nel quarto uno guida con la nebbia vede degli elefanti e fa a pugni con dei cartaginesi sul Trebbia nel quinto una cartomante che c’ ha delle visioni si fa ispettrice e si fa un ispettore nel sesto c’è una che cuce pantaloni trova un biglietto si sposa e si pestano tutti nel settimo c’è un pubblicitario che parla con la batusa ma la batusa è una statua nell’ottavo c’è una gara fra cavalli e tanto buon senso nel nono uno scende dal pullman e guarda una finestra nel decimo c’è un intreccio con delle canzoni e delle donne nell’undicesimo uno deve dare un esame è un po’ giù d’umore e abita al quarto piano in quello dopo uno prende un pullman dei brutti voti e un due di picche in quello dopo c’è una bimba speciale su un’altalena poi c’è una che parla da sola e decolla con un cavallo di bronzo poi c’è uno che va in bici urlando Gagarin e che guarda gli uomini che camminano sulla Luna poi si va a Fiorenzuola dove la luna è una forma di formaggio e le fragole si raccolgono sulle scale poi ci sono dei tipi sulle nuvole che parlano fra di loro e un camion va in un fienile poi c’è quello del Colagrande che a riassumerlo lo si allungherebbe ma che tira in ballo Calvino e a me Calvino piace molto.
  • SECONDO RACCONTO (di Alessandra Locatelli, Sergio Cicconi e Luigi Tuveri)

Serata all’opera
4/4
Sarà che le frasi retoriche lui non le ha mai capite. È tutta questione di atteggiamento, di prospettiva, non lo sai Gino?
Atteggiamento, prospettiva: parole vuote strizzate dentro quel muscolo sezionato in quattro sopra cui la busta della raccomandata pesa più del piombo.
Sarà che lui in fatto di opera la pensa come suo nipote Lorenzo, di solito. Ma stamattina giù in portineria, paralizzato davanti alla cassetta delle lettere, ha sorpreso Amalia, l’anziana signora che vive con un canarino ed un gatto al piano di sotto, ad osservarlo.
Sarà che Gino ha deciso che domani non andrà al lavoro.
Sarà che si sente come non ha letto in nessun libro e pensa che il suo muscolo stia raggrinzendo con il dubbio di aver scandito un tempo non suo.
Sa che Verdi, dopo quei gravi lutti, non voleva più comporre? Poi un giorno il Merelli lo fermò per strada e gli diede a forza il libretto del Nabucco. Verdi tornato a casa lo gettò sul tavolo, poverino soffriva troppo, non ne voleva sapere! Ma il poema si aprì per caso sui versi del Va pensiero e quelle parole, ah Signor Gino, quelle parole, raggiunsero dirette il suo cuore!
Sarà che Gino ignora del tutto i gravi lutti di Verdi e chi fosse il Merelli, ma quando Amalia gli ha ceduto il suo biglietto per l’opera, lui lo ha preso.
E ora aspetta che il coro dei prigionieri di Babilonia invada il teatro.
Sarà che Gino ha la lucida convinzione di aver perso tutto, eppure gli sembra che il suo muscolo si scuota, si ribelli alla fine che gli ha programmato per l’indomani.
E che aspetti, con lui, quei 4/4. Per tornare ad essere un cuore.
Ecco… inizia.

Pelle d’oca

Era struggente.
La melodia ti penetrava l’anima, la prendeva tra le sue mani forti, calde, grandi e te la strizzava lentamente, dolcemente, inesorabilmente fino a spremerne fuori fino all’ultima goccia di sentimento.“Va pensiero, sull’ali…”
Pelle d’oca.
Il brivido noto, amato, cercato scendeva giù, sempre più profondo, in ondate successive, ogni volta più vicine, incalzanti, come cerchi ipnotici creati da un sassolino fatto cadere nell’acqua ferma. E il centro, là da dove partivano le onde, era lei.
Ma le piccole onde concentriche che si allargavano verso l’ignoto erano la sua vita. Rincorrersi di eventi, di pensieri, di sensazioni. Di azioni. Di inazioni. Lasciarsi cullare dalla musica, dalle parole. Il coro. Sensazioni. Groppo in gola e occhi brucianti. Lacrime ricacciate. Quasi tutte.
Meraviglioso.
Ricordando, parlava. Come fa chi è molto solo.
E rammentava quel signore che sedeva nella poltrona accanto a lei, quella sera, all’opera, e le aveva detto: «Signora mia, mi creda, vedrà che molto presto questo sarà l’ inno della nazione. Lo sa, Verdi era Padano.»
Si era anche presentato quel signore. «Com’è che si chiamava.» Chiese al canarino, che però non l’aiutava.
«Forse Lamberto, Roberto, un nome con Berto… non ricordo, chissà?» Fece al gatto bigio che la osservava col muso interrogativamente piegato di lato.

Per Elisa

Lorenzo è un operaio e di opera ne sa zero. Ha conosciuto Elisa a un corso di canto brasiliano; si sono piaciuti subito e sono usciti a cena. Una domenica pomeriggio, a Como, camminando sul lungolago, dopo una visita alla mostra di Magritte, si sono messi a parlare di pittura, letteratura straniera e di opera. A parlare era soprattutto Elisa, ne sapeva di ogni e Lorenzo, annuendo e citando reminiscenze scolastiche, aveva finito col riparare discorrendo di sport, musica leggera e cumulo nembi. Però Elisa gli piaceva di brutto. Due mesi dopo l’attendeva davanti a teatro. Elisa era in ritardo, aveva lasciato le chiavi al posteggiatore e, schivando le pozzanghere, aveva saltabeccato sui tacchi proteggendosi l’acconciatura con un ombrello rosa. Allo smorzarsi delle luci, sul palco, erano apparsi alcuni ebrei disperati. Lorenzo, nervoso e per nulla a proprio agio, aveva tenuto duro fino al terzo atto ma sul Va Pensiero, i suoi pensieri, confluendo oltre la cintola e dispiegandosi più alti, gli avevano ricordato il turno in fabbrica del mattino dopo, quello delle cinque. Così aveva fatto fagotto e si era dileguato dal loggione che a volare pareva lui. Elisa pensò fosse andato in bagno, invece, dal tram, stava chiamando Alda, vecchia amica e tifosa di calcio: «Che ne dici se alla partita ci andiamo insieme domani sera?».

  • TERZO RACCONTO (di Doriana Riva, Francesco Danelli e Pietro Chiappelloni)

Il maestro

«Di qua, bambini!»
La maestra, seguita dalla classe, si spostò in un’altra stanza della casa-museo di Sant’Agata. Luca non si mosse. Sentì la voce della guida allontanarsi: «…E questa è la camera di Giuseppe Verdi e Giuseppina Strepponi…». Lui rimase nella grande sala col pianoforte, come ipnotizzato.
Aveva sempre amato la musica e la promessa di suo padre era stata che, al primo aumento di stipendio, l’avrebbe mandato a lezione di pianoforte.
Si avvicinò allo strumento e, senza osare toccarlo, allungò le braccia e iniziò a muovere velocemente le dita, fingendo di suonare una melodia.
Si riscosse, accorgendosi improvvisamente di non udire più in sottofondo le voci della guida e della maestra e il brusio dei compagni, e si avviò verso la stanza in cui li aveva visti dirigersi. Si fermò subito: alle sue spalle le note del pianoforte si alzavano velocissime, creando frammenti di brani conosciuti alternati ad altri che non aveva mai sentito. Ascoltò, non avrebbe saputo dire per quanto tempo, senza osare voltarsi per paura che fosse solo la sua immaginazione. Poi, lentamente, si girò verso il pianoforte.
«Chi sei?» chiese alla figura che stava suonando col busto eretto, muovendosi a scatti. Di lui distingueva le code della giacca che coprivano il seggiolino di velluto, il cappello a cilindro e gli occhi: solo quelli, vivi, fiammeggianti. Il resto lo intravvedeva, come sul televisore di casa prima che il papà gli comprasse gli occhiali.
«Sono il Maestro. E tu?»
«Giacobazzi Luca, Terza B» rispose il bambino pensando: “Un altro maestro… chissà dove insegna.”
«Ti piace l’opera?» La voce era soffice, amichevole, in contrasto con l’espressione severa degli occhi.
«Mio papà… è un patito, lui. Qualche volta mi ci porta.»
«Quale opera ti piace di più?» L’uomo aveva posato le mani in grembo, in attesa.
«L’Aida» rispose Luca senza esitazioni.
Gli occhi si addolcirono: «Anche a me. È la mia preferita. E perché ti piace tanto?»
«Per gli elefanti», disse Luca, ricordandosi di quella magica sera a Verona.
Gli occhi tornarono fiammeggianti. «Bifolchi!», sussurrò l’uomo sottovoce. E riprese a suonare.
Luca non conosceva il significato della parola, ma il tono con cui era stata pronunciata gli suggeriva di mantenere le distanze da quello strano personaggio.
Il Maestro suonava con grande impeto. Poi, a metà di un passaggio, si bloccò di colpo, lasciando cadere pesantemente le mani sulla tastiera.
Si tolse il cilindro, lo appoggiò sul pianoforte e con un gesto noncurante si passò le dita tra i folti capelli bianchi. In quell’attimo a Luca parve che la sua immagine si stesse dissolvendo. Sgranò gli occhi, li sfregò con le mani e guardò di nuovo.
Il vecchio signore c’era ancora, ma… era come se, ad ogni attimo, diventasse sempre più trasparente.
«Signore…?», si arrischiò a chiedere con voce tremula. «Si sente bene…?»
Il Maestro si riscosse e lo guardò. Preoccupato, Luca sospirò profondamente. Avrebbe dovuto tornare di nuovo dall’oculista. Quegli occhiali non andavano bene. Affatto.
«Sì, sto bene», gli rispose lui. «Avevo solo nostalgia di questo posto e sono venuto a dare un’occhiata…» Il suo sguardo accarezzò il pianoforte. «Ora devo andare.»
Inconsapevolmente Luca fece un passo avanti, nel tentativo di vederlo meglio.
«E… dove va, signore?»
«Molto lontano… Ma tornerò, ci puoi scommettere. È troppo divertente…».
Così dicendo, gli fece l’occhiolino e sparì.
Sul pianoforte rimase solo il suo cilindro che, come sospinto da una brezza gentile, scivolò per terra.

  • QUARTO RACCONTO (di Giusy Cafari Panico, Chiara Ferrari e Elisabetta Paraboschi)

Dolce a sorpresa

CUOCO

Li ho visti dalla porta della cucina che si apriva quando è entrato il cameriere con le ultime comande. Erano laggiù, proprio davanti guardando dritto. Dai piatti dei primi che tornavano dalla sala avevo già capito che dovevano essere loro, una coppia, quelli del tavolo tre. Lei era quella che aveva ordinato gnocchetti di zucca e tartufo e li aveva lasciati a metà, lui aveva divorato i ravioli di ricotta ed erbette al burro nocciola. Per i secondi stessa storia, antipasti niente. Adesso chiedevano un dolce a sorpresa, non in menù. L’ha deciso la signora, dice il cameriere. Porzione per due. «Sono sicura che mi farà contenta, questo cuoco» mi ripete facendole eco. Vuole che le prepari un dessert speciale per concludere la cena. Terminare la serata e chiudere il conto con il suo uomo, forse. Che non la ama. O invece: una scusa, l’occasione per prendere tempo, gustarsi tutto fino all’ultimo cucchiaio e non chiudere proprio niente, anzi prolungare.
Prendo dell’ananas succoso, lo taglio a cubetti che sembrano zaffiri, lo infiammo col rum e lo impiatto su un Ginori bordato d’oro. Ci verso zabaione caldo. Poi gelato alla vaniglia, scaglie di cioccolato fondente extra e salsa di fragola. Così, in bocca, il dolce si mescola all’amaro e il liquido al croccante per stuzzicare la lingua. In gola, freddo e caldissimo insieme. Nero, rosso e oro: giochi di luce per gli occhi, che rideranno. Mando fuori con una bottiglia di Sauternes. Per la signora, più che per lui. E aspetto.

LUI
La fretta non mi sta permettendo di gustare nulla. I sapori devono indugiare sulle papille gustative per qualche secondo per permettere al piacere di arrivare al cervello.
Sto contravvenendo ai principi base che ho insegnato a Michela quando ho deciso di introdurla nel mio mondo edonistico e raffinato.
“Questa è alta cucina, ovvero Arte, Cultura. Non trangugiare, non dare nulla per scontato. Annusa e assapora.” È così che l’ho plasmata, trasformandola in una donna di classe.
Guardala, come ruota quel vino francese nel calice, come sistema con eleganza il solito ciuffo sfuggito allo chignon: ormai il mio compito da pigmalione è finito.
Lo sai, vero, che ti voglio molto bene?
Questo dolce all’ananas mi ricorda la prima volta che l’ho portata a cena.
Aveva portato un cubetto alle labbra con le dita, in un gesto voluttuoso che non era contemplato dal galateo, ma portava in sé grazia e spregiudicatezza. Ecco la donna per me, avevo pensato.
Ora però la situazione è cambiata. La mia vita è troppo complicata per includere “noi due”.
I miei pensieri si stanno sciogliendo nell’abbraccio caldo del cioccolato e negli occhi di lei, dello stesso pastoso colore. Non posso permettermi di annegare nella loro dolce arrendevolezza, come ho fatto tante volte.
Inseguo con il cucchiaio da dessert l’ultimo rivolo di fragola. Non riesco a non fissarle la bocca rosea, immaginando di posarvi la mia per l’ultima volta. Decido di interrompere il silenzio “Lo sai, vero…” ma lei mi previene.

LEI

“Ho deciso di lasciarti” gli dico in un soffio. In bocca ho ancora il sapore fresco e zuccherino della fragola: “ho deciso di lasciarti” ripeto più decisa, finendo l’ultimo sorso di Sauternes. Quanto mi è costato dirglielo. Anche se ora sembra che non m’importi nulla, che tutta la mia attenzione sia così straordinariamente focalizzata a gustare l’ultima ebbrezza del vino. Questo discorso me lo sono ripetuto decine di volte nella testa, in silenzio per strada: il pigmalione mi ha stancato. E anche la sua classe, i suoi modi educati, “charmant” come gli piace definirli, la sua eleganza da uomo d’altri tempi. Anche io sono diventata una donna d’altri tempi: abito lungo, pelliccia, chignon perché a lui piacevo così. E a me? Forse no. A me piace la freschezza delle fragole; e lui non se ne è mai accorto. Mi piace il calore del cioccolato; e a lui non importa. Non è come Giorgio, lui.
Mi alzo. Lui non dice niente, non tenta di fermarmi. Mi dirigo rapida verso il guardaroba, prendo la pelliccia ed esco: fuori fa freddo, mi accendo una sigaretta, è da un pezzo che non fumo.
Guardo verso la porta del retro del ristorante, quella della cucina: si apre.
“Che gli hai detto?”.
“Prova a indovinare”.
Mi avvicino con lo sguardo più malizioso che mi viene in quel momento: gli prendo la mano nascosta sotto il grembiule da cuoco. Dentro c’è una fragola. L’addento, un rivolo di succo rosso mi scende dal labbro: mi avvicino ancora, sempre di più, posso sentire il suo respiro. Quello di Giorgio.

[Chiara Ferrari insegna Storia del prezzemolo, Giusy Cafari Panico scrive poesie all’aglio, olio e peperoncino, Elisabetta Paraboschi è specializzata in Filologia del cioccolato].