In quella sera di Avvento, provenendo dalla Piazza innevata che emanava un riflesso accecante, l’interno della Cattedrale di Piacenza sembrava una grotta buia.

Non si intravedeva quasi nulla tra le due porte che il sagrestano stava fiaccamente preparandosi a chiudere .

         No, la prego, solo un minuto! – due giovani donne stavano salendo di corsa la scalinata che portava all’ingresso.

         Solo un minuto! – ripeté togliendosi il cappuccio del loden quella bruna

         Solo una preghiera – sussurrò l’altra nascosta completamente da un berretto da cui sbucavano solo alcune ciocche rosse.

L’uomo, senza ascoltarle, continuava a spostare quelle pesanti chiusure lignee risalenti al medioevo. Da tanti anni non faceva nessuna eccezione agli orari di chiusura e di apertura.

La ragazza bruna però aveva una luce così malinconica negli occhi che il sagrestano, senza sapere il motivo del suo comportamento, spalancò le pesanti porte e la lasciò passare assieme alla compagna.

         E’ qui? –  Emanuela scrollò i capelli color tiziano estraendoli dal copricapo e si mise a percorrere le buie navate.

         Sì, là in fondo – sorrise Agata 

Le loro voci rimbombavano tra le antiche colonne che riflettendo la luce dall’esterno guidavano i loro passi.

         Aspetta, non ho fatto tanti chilometri per non vedere nulla della cattedrale – Emanuela infilò una moneta da due euro in una fessura e dopo pochi istanti la cupola affrescata dal Guercino si illuminò e risplendette maestosa negli occhi delle due giovani donne.

         Grazie di essermi venuta a trovare – l’amica le diede un buffetto sulla guancia

Non credevo che avresti mantenuto la promessa…  Quanto tempo vero? –

         Ma funziona? –

         Ti dico che funziona! Non sai quante volte gli rompo le scatole… – la bruna tirò per un braccio l’amica persa nella contemplazione del prezioso coro ligneo e delle meraviglie della cattedrale.

         Agata… siamo in chiesa! –

Ma a perdicollo Emanuela si fece trascinare davanti ad una teca illuminata a giorno.

Un uomo vestito con sacri paramenti decorati giaceva davanti a loro, il volto coperto da una maschera d’argento.

         E’ il Beato Scalabrini – spiegò Agata – E’ il santo dei migranti e quindi anche il tuo, che arrivi da lontano.. –

         Arrivare da Rimini non è proprio come arrivare da un altro continente! –  sorrise Emanuela

         E’ anche il santo delle mediazioni… non sai quante volte gli ho scritto.

         Davvero? – La ragazza si avvicinò ad un grosso libro che era appoggiato ad un leggio, vicino alla teca.

         Questo è il libro delle grazie! Ogni settimana vengo qui e scrivo…

Agata ripensò alle ultime volte che aveva espresso i suoi desideri ed emise un sospirò talmente profondo che risuonò nella navata.

         Beh, a volte non è che mi esaudisca subito… – continuò – per certe cose ci vogliono anni, forse una vita intera… Sentì un brivido dentro, che veniva da molto lontano e che coincise con lo spegnimento delle luci della chiesa.

L’oscurità era tornata ad insidiarsi ovunque, negli absidi, sull’altare, nelle cappelle votive dove erano state spente tutte le candele.

L’unica luce era quella che illuminava il corpo del santo e, di riflesso, il libro delle grazie.

         Io ho chiesto fin troppo, sorrise Agata, mentre Emanuela si avvicinava con timor sacro alla teca, appoggiandosi delicatamente al vetro- Scrivi tu! –

Emanuela avvertì l’intensità dei desideri ancora inesauditi dell’amica –  Ma io non ho nulla da chiedere – pensò a voce alta – sto vivendo un periodo bellissimo. L’unica cosa che potrei chiedere è quella che tutto continui così… Invece vorrei scrivere qualcosa per te… visto che ti ci credi tanto –

E si avvicinò al grosso tomo, aperto a metà. Agata la raggiunse e insieme violarono i segreti di cento anime, di cento calligrafie diverse che innalzavano al cielo cento preghiere: protezione per la famiglia, guarigioni per i loro cari, sollievo dalle afflizioni, richieste di lavoro.

Tanta umanità dolente ai piedi di un corpo innalzato agli altari e davanti alla sua maschera muta.

Emanuela ed Agata leggevano stando vicine, come se si stessero comunicando emozioni e pensieri. Uno in particolare entrò loro dentro il cuore e la mente, passando da una all’altra.

         So che ti senti tanto sola, e vorrei tanto che trovassi finalmente un uomo con cui costruire una famiglia, cara… è quello che voglio scrivere! –

Emanuela, ripetendo al sagrestano che chiedeva loro insistentemente di uscire  – Solo un minuto! –  fece scorrere il libro fino all’ultima pagina disponibile e prese in mano la penna.

Con il dito arrivò all’ultima frase che vi era stata scritta e, dimentica della sacralità del luogo, con una strana eccitazione nella voce,  si rivolse ad alta voce all’amica:

 – Leggi, leggi subito! – 

La preghiera era datata lo stesso giorno; c’era persino l’orario, che risaliva a qualche minuto prima che entrassero.

“SANTO VESCOVO DI PIACENZA, FA’ CHE POSSA TROVARE UNA BELLA RAGAZZA PIACENTINA DA AMARE E DA SPOSARE. LEONARDO”

(Giusy Cafari Panico)

 

Leonardo era un compagno di liceo e di goliardiche scorribande adolescenziali di Agata, la bella mora dai grandi e profondi occhi verdi.

Lei aveva optato per la facoltà di interpretariato a Trieste, perché sognava di viaggiare, ma poi, per un caso fortuito, aveva trovato collocamento presso l’ufficio del commercio estero della Camera di Commercio locale, prospiciente all’eterogenea Piazza Cavalli, un riassunto architettonico della composita storia d’Italia.

Leonardo, in nomen omen, si era laureato in fisica a Milano.

La sua ambizione era la ricerca: scherzava con Agata dicendole che lei aveva spirito da zingara, mentre lui si sentiva uno stanziale topo da laboratorio.

Tornando dalla discussione della tesi, con le vene ancora sature di adrenalina, chiacchierava concitato con i genitori gonfi di orgoglio per la laurea magna cum laude del loro figlio unico, gesticolando come un penalista arringante: non vide quel tir che stava imboccando la sua corsia sull’A1 e fu uno stritolio di lamiere e …

La sua mente aveva cancellato per autodifesa tutto il resto. Nemmeno negli incubi notturni il suo inconscio riusciva a ricostruire a la scena catastrofica.

Non riusciva a metabolizzarla.

Dopo due settimane di operazioni ortopediche che gli avevano proibito di partecipare ai funerali di sua madre e di suo padre, era ritornato nel loro, nel suo appartamento in via Borghetto. Non ce la faceva: non poteva più inforcare la bicicletta e andare al mercato coperto di piazza Casali a prendere il pane, passare vicino alla torrefazione di via Cittadella o al fiorista sul Corso, senza che i colori, le voci, i profumi gli risvegliassero quel macigno che gli comprimeva lo sterno e gli frenava il respiro.

La sua distrazione aveva ucciso i suoi genitori.

Pur essendo agnostico, un pomeriggio brumoso incontrò il suo vecchio professore di religione che, tra le raffiche gelide e pungenti dell’imbuto di via Calzolai, lo indusse ad un semi-catartico pianto, il primo da quel giorno, e gli consigliò di rivolgersi ai padri scalabriniani.

Sì.

Forse era proprio la scelta giusta: cercavano supporto per una missione in Chapas.

Leonardo partì per il Messico ad aiutare “gli altri” per perdonare se stesso.

Quell’inverno era stato richiamato dal notaio per una burocratica questione di scartoffie sulla successione che non aveva mai perfezionato. Non era fatto per le beghe legali e amministrative, ma questa volta non poteva esimersi dall’affrontarle.

Sul volo di ritorno lo assaliva una forte nausea. L’idea di tornare in quella città affascinante e schiva, dagli inverni gelidi, dalle nebbie spesse, con le vetrine natalizie opulenti e scintillanti proprio nel periodo dell’Avvento, dove le spocchiose famigliole e le affettate signore impellicciate si scambiavano effusioni ed auguri rituali ed ipocriti nei bar del centro gli causava angoscia e repulsione.

Non aveva più una famiglia. Non c’era più da comprare il parmigiano vernengo di tre anni per gli anolini, il cappone nostrano per il brodo… C’era solo un appartamento nel quale non avrebbe più voluto mettere piede.

Inspirando a fondo inserì la chiave nella toppa ed aprì la porta di quella casa odorosa di chiuso. Lo stesso odore che aveva dentro. Fece un giro d’ispezione. Sotto il velo di polvere c’era la foto scattata il giorno del diploma dopo la cena sul Bagnolo.

Le lacrime iniziarono a fluire da sole. Bruciavano per l’acidità e stentavano a scorrere talmente erano dense.

Si diede uno schiaffo alla fronte: nel Chapas devastato dalle sommosse aveva conosciuto tanti bambini e ragazzi che avevano perso i genitori prima ancora di poterne coltivare un’immagine da ricordare. Lui aveva avuto il privilegio di godere del calore di una famiglia per 24 anni. Aveva avuto una madre che gli medicava le ginocchia sbucciate e un padre che andava a fare il tifo per lui alle partite di palla-canestro.

Andò in bagno, si sfregò il viso con l’acqua fredda, scese in cantina e, dopo aver gonfiato le gomme e strappato via grossolanamente le ragnatele, inforcò la bici e uscì.

Fu come uscire dalla prigione in cui stava segregato.

Sorrideva come un ebete da solo ripassando, per associazione di idee, tutta la sua vita precedente richiamata da quegli angoli della Piacenza più segreta.

Dopo alcuni giorni trascorsi a rivedere amici e parenti, stupiti e un po’ perplessi nel constatare questa sua euforica rinascita e dopo aver espletato i doveri burocratici con il notaio, iniziò a covare l’idea di non volersene più andare da lì.

In Messico avevano bisogno della sua missione laica. Ma lui non aveva più bisogno di loro. Avrebbe potuto dare continuità lì, magari facendo volontariato presso il carcere. Capiva bene come si sta a convivere con un senso di colpa e di costrizione. Aveva vissuto la reclusione anche senza aver mai trascorso un giorno in una cella angusta.

Per quello era entrato in Duomo e per quello aveva vergato a lettere maiuscole, come un grido d’aiuto disperato, la frase che ora Agata, in un subitaneo accesso di tachicardia, stava leggendo.

–         Agata, come ti senti?

chiese Emanuela con un sorriso tirato e preoccupato, vendendo l’amica sbiancare

Per tutta risposta Agata strattonò Emanuela e le sibilò:

–         Usciamo da qui. Immediatamente!

Leonardo era uscito passando dalla sacrestia dove si era intrattenuto brevemente con il vecchio professore che gli aveva suggerito quel cambiamento di vita un pomeriggio ormai remotissimo. Si erano riabbracciati e Don Franco aveva sentito un intenso calore pervadergli il cuore scorgendo quelle scintille di vita e di rinata speranza negli occhi di quel ragazzo. Non aveva mai trovato la fede in Dio. Ma aveva ritrovato la fiducia nella Vita. E questo bastava. Si era perdonato.

Ma chi non lo aveva perdonato era Agata

–         Ma ti rendi conto, Emanuela? Io ero completamente persa per lui e lui se ne è partito per il Messico senza neanche un sms. Mai una mail per tutto questo tempo. Posso capire che fosse sconvolto, ma non riesco a trovare una giustificazione per il suo distacco. Non lo voglio incrociare.

–         Agata, ma tu non credi che in quel periodo forse gli desse fastidio anche guardarsi allo specchio? Come psicologa all’ospedale di Ravenna ne ho viste tante di persone che morivano dal desiderio struggente di avere accanto i loro amici o i loro familiari, ma, per il senso di colpa, non se ne sentivano degni. Cerca di ragionare. Leonardo si deve essere odiato per quello che è successo. C’è gente che arriva al suicidio per fati del genere. Non puoi essere così intransigente con lui.

Agata si mise a singhiozzare, celando lo sguardo e il volto contratto dietro la tazza in cui aveva versato un aromatico thé al cardamomo.

La notte, nel letto matrimoniale del mono-locale di Agata, le due amiche, come ai tempi delle vacanze sulla riviera romagnola dove si erano conosciute, conversarono a lungo e Agata raccontò di quanto Leonardo fosse il perno dei suoi pensieri, ma lui pensava solo alla sua dannatissima e incomprensibile fisica.

L’indomani mattina, mentre Emanuela indugiava sotto la doccia, Agata uscì a prendere il giornale e a fare la spesa.

Mentre usciva dalla torrefazione di via Cittadella, inebriata dalle essenze di cru di caffè, alzando lo sgardo dal portafogli in cui stava riordinando le banconote del resto, si trovò a pochi centimetri da un ragazzo con qualche filo bianco tra i capelli castani che fissava con il sorriso negli occhi la pala rotante del tostatore di chicchi.

–         Leo…?

Sussurrò lei titubante.

Leonardo si voltò lentamente e senza una parola la sollevò in un abbraccio come quando riusciva a prendere la sufficienza in latino grazie ai suggerimenti della secchiona Agata.

Sempre senza spiegazioni, seguendo un istinto ancestrale represso dal tempo, dalle convenzioni, dalle inibizioni giovanili, le loro labbra si incontrarono. E tutto l’astio di Agata si dissipò come solo la nebbia piacentina può fare con un colpo di vento.

(Giorgia Bussandri)

(anico)