[…] uno nel momento che scrive è miracolosamente spinto  a ignorare le circostanze presenti della sua propria vita. Certo è così. Ma l’essere felici o infelici ci porta a scrivere in un modo o in un altro. Quando siamo felici la nostra fantasia ha più forza; quando siamo infelici, agisce allora più vivacemente la nostra memoria. La sofferenza rende la fantasia debole e pigra; essa si muove, ma svogliatamente e con languore, con i deboli moti dei malati, con la stanchezza e la cautela delle mebra dolenti e febbricitanti; ci è difficile distogliere lo sguardo dalla nostra vita e dalla nostra anima, dalla sete e dall’inquietudine, che ci pervade. Nelle cose che scriviamo affiorano allora di continuo ricordi del nostro passato, la nostra propria voce risuona di continuo e non riusciamo ad imporle silenzio. Fra noi e i personaggi  che allora inventiamo, che la nostra fantasia illanguidita riesce tuttavia a inventare, nasce un rapporto particolare, tenero e come materno, un raporto caldo e umido di lagrime, d’un’intimità carnale e soffocante.

[…] dopo, quando si diventa più adulti, ha meno importanza lo stato d’animo rispetto alla scrittura, nel senso che si hanno a un certo punto della vita tante perdite che un sottofondo di infelicità profonda c’è sempre. E perciò influisce meno…

 

Avrei voluto essere io a scrivere questo: sono parole che pensiamo un po’ tutti, straordinariamente vere nella loro sconcertante semplicità. E allora rimando a un libro come E’ difficile parlare di sè di Natalia Ginzburg (Einaudi): una conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi e curata da Cesare Garboli e Lisa Ginzburg.