Le vicende del romanzo si dipanano tra due realtà: Piacenza, con i suoi palazzi cittadini e le sue ville adagiate su colline senza tempo, e la Camargue, selvaggia regione della Francia del Sud, i cui profili sono disegnati dal Mistral.
Ma non solo: due sono anche i piani temporali. Da una parte l’hic et nunc preciso e quasi diaristico che vede susseguirsi le tappe del viaggio di Mirea, da quel “era stato un funerale perfetto” – frase che ci contestualizza da subito il “la” di partenza – a “la prima sensazione fu quella di un pellegrino che torna alla propria misera dimora dopo un interminabile viaggio colmo di pericoli” che ci conduce al finale aperto.
Dall’altra uno spazio-tempo sospeso, nebuloso, nel quale si intrecciano voci, si susseguono decisioni: un non-luogo sconosciuto, eppure dai contenuti paradossalmente molto concreti, accessibile solo se si trova la “chiave” giusta.

– Virginia, il romanzo si apre con una citazione de La strada di Swan di Proust, in particolare con un passaggio riferito alla madeleine, uno dei simboli di innesto del ricordo per eccellenza, in letteratura. Più avanti citi anche i Proverbi di Re Salomone. Entrambi i testi saranno essenziali nella ricerca di verità di Mirea. Come sei arrivata a questa scelta?

 

Per rispondere alla domanda, dovrei fare una premessa. Quando scrivo sono i personaggi a portarsi via la storia. A farla scorrere, a farla muovere, a scombinare i miei piani, le mie tracce, il mio canovaccio. Loro prendono forma e vita, hanno una propria volontà e propri desideri e la storia è in continuo divenire. Fino alla fine. Fino all’ultima pagina. Il gioco di incastri, la trama si articolano e si snodano secondo un percorso che non è stimato. Che non era previsto. Non a caso la frase iniziale dei ringraziamenti in fondo al libro parla proprio del caso fortuito che ha portato tra le mie mani Le beatitudini del Saggio, I proverbi di Re Salomone nella Bibbia. Una lettura che è avvenuta senza avere conoscenza del profondo legame che univa il re saggio alle vicende templari.

Il proverbio in maniera non premeditata è divenuto il nodo centrale, il fulcro della storia dell’Ottava pergamena.

E il recupero del passato attraverso la memoria involontaria se per Proust è il sapore delle Madeleine, per Mirea sono i ricordi del passato legato ai suoi genitori e il profumo, il sapore dei Nasturzi.

Se per i Proverbi devo ammettere che si è trattato di una casualità, la scelta di citare Proust è stata approdo sicuro di una lunga ricerca.


– Il simbolo gioca un ruolo fondamentale nel romanzo.
La croce guardiana. Conosciuta per racchiudere le tre Virtù teologali di Fede Speranza e Carità, socchiude le porte del Tempo, in un percorso a ritroso fino al XV secolo, e si intreccia a vicende storiche note. Ma definisce anche, forse, l’identità della famiglia di Mirea.

La croce guardiana è il simbolo che rappresenta la Camargue. Secondo la storia fu Hermann Paul a disegnarla sotto richiesta di Folco de Baroncelli nel 1924. Sarebbe stato perfetto immaginare invece che la croce avesse un’identità differente, molto più antica e molto più misteriosa legata proprio alle vicende della famiglia Rolandi.  

Il luoghi. La cripta di Sara, la Torre di Aigues Mortes, una casa piacentina con uno strano affresco, la sala ottagonale: protagonisti vivi, portatori di significato.
Mirea.

Il nome stesso, derivato da un fiore camarghese…

Mirea è un nome di donna che mi è sempre piaciuto. Ma è vero che è legato al nome della protagonista femminile del poema in lingua provenzale di Frederic Mistral Mirejo del 1859 nel quale la Camargue trova la sua massima espressione epica e sentimentale.

La cripta di Sara così come la chiesa delle Saintes sono luoghi di straordinario impatto emotivo. Anche per i non credenti.

L’ottagono invece è il simbolo delle otto beatitudini.


La contestualizzazione delle vicende è precisa. Immagino sia stata necessaria un’approfondita ricerca storica.

 

La ricerca storica sostiene l’intreccio e lo arricchisce ed è struttura portante della vicenda del senso più ampio del termine. Immergersi nella lettura dei saggi, individuare più punti di vista, avere un quadro generale del periodo storico che non è solo una mera compilazione di date, luoghi e avvenimenti ma è soprattutto ricerca del quotidiano, degli usi e costumi, delle abitudini, dell’alimentazione, del linguaggio, della religione, della struttura politica di un popolo sono elementi che rendono ancora più stimolante il mio diletto di scribacchina. Senza alcuna pretesa di insegnamento, perché non è il fine ultimo a cui aspiro, la ricerca storica è puro piacere personale. E’ voglia di conoscere e di documentarsi, di ricercare fonti attendibili e di dare valore aggiunto ai miei romanzi.

Una curiosità che riguarda i nomi dei personaggi. Mirea Anita, la protagonista. Giulio e Jules, i due uomini. Giorgio, il nonno. Gugliemo… Tutti iniziano con la lettera G. E molti personaggi secondari il cui nome inizia con la E. Non credo sia un caso…

Mi sono divertita a creare sottili tasselli di un complicato puzzle cercando una palese connessione tra i veri protagonisti, davvero lampante. E forse perché sotto gli occhi del lettore, meno facile da individuare. I nomi dei personaggi secondari iniziano quasi tutti con la lettera E. Per qualcuno è un caso, per altre l’ennesima connessione voluta.

La struttura del romanzo potrebbe avvicinarlo al Codice da Vinci. Come definiresti il tuo stile, il tuo rapporto con la scrittura e la storia che decidi di narrare?

L’idea del romanzo è nata per caso durante un viaggio in macchina con Solange Mela, amica carissima, compagna di scrittura, di comuni progetti. La materia templare è il frutto della passione per le vicende misteriose – che arricchiscono da tempi non sospetti la narrativa – sull’ordine del Tempio che mi ha trasmesso mio marito Marco Pavesi. Per quel che riguarda il Codice da Vinci, non l’ho mai letto. Ma il mondo della letteratura è pieno di prove analoghe, anche meglio riuscite di quelle di Dan Brown.

Il mio stile, non saprei definirlo, meglio lasciare l’ardua impresa al malcapitato che deve farci i conti.

Scrivere è la mia dose di nicotina quotidiana. E’ momento di comunione, è liberazione, è aria pulita, è desiderio di evadere, è diletto, passione viscerale e connaturata come un imprinting con il quale vieni al mondo. E’ un dono straordinario che va preservato e custodito. E’ maniera per debellare la solitudine e credere che coltivandola con rispetto e devozione e gioia non conosceremo mai il significato della parola noia.

Sono i personaggi che scelgono me. E sono loro che si portano storie e dialoghi e ambientazioni, intreccio ed emozioni senza tempo che non fanno altro che trascinarmi e condurmi per mano – talvolta addirittura tirandomi per i capelli – da qualche parte, in qualche luogo sconosciuto, dove per qualche strano caso sono la bene accetta.

Un’ultima domanda. Hai un modo di narrare molto visivo. Io ero con Mirea sulla Torre, sentivo il Mistral tra i capelli, assaporavo con lei il vino francese. Tu sei anche fotografa. Quando la dimensione dell’ osservare ti guida, come scrittrice? E come sei riuscita a conciliarla, in questo caso, dove si trattava di vedere con altri tipi di occhi?

 

Qualcuno ha detto scrivi solo di ciò che conosci. Ho vissuto la Camargue sulla mia pelle per due estati. Ho sentito il Mistral sulla faccia. Ho cavalcato i Rosses nelle paludi, anche se a dirla tutta in maniera molto fantozziana, per il divertimento soprattutto dei miei amici e di altri simpatici turisti del posto. Ho navigato sul piccolo Rodano. Ho fotografato i cigni selvatici, i tori, le cabane, le spiagge ad un’ora imprecisata dell’alba, il porticciolo delle Saintes al tramonto quando gli ultimi bagnanti ancora oziano sulla sabbia o passeggiano sulla battigia. Ho mangiato nei piccoli ristoranti sempre affollati a qualsiasi ora del pranzo o della cena. Ho ascoltato le ballate degli zingari, ho visto brillare i loro bivacchi di notte. Ho percepito il profumo della santità nella chiesa delle Saintes ed ho respirato a fatica nella cripta di Sara. Ho camminato nel primo pomeriggio sulle mura di Aigues Mortes, scorgendo saline all’orizzonte, ascoltando i tamburi della festa di San Giulio… Ed ho immaginato vicende e personaggi ed ho ascoltato incantata ciò che avevano da raccontarmi. Ho amato la Camargue prima ancora di vederla. E la sento ancora sotto pelle. Nelle notti d’estate, quando il cielo si pavoneggia sotto un firmamento che profuma d’eternità.

Ed io, che la Camargue l’ho vissuta e amata tanto da portarne il simbolo guardiano sulla pelle, non posso che capire.