Aspettando la presentazione di venerdì 19 giugno, vi proponiamo un piccolo assaggio.
Attenzione, non si tratta di brani estrapolati dai nostri racconti.
E’ qualcosa di più.
Sono le motivazioni che hanno spinto ognuno di noi a confrontarci con la parola che da il titolo all’antologia, Confini.
Tre sillabe semplici, ma dai molteplici e complessi significati.
Buona lettura… a venerdì!
“Il confine di un miracolo” mette in scena il confine che una donna deve oltrepassare quando scopre di essere incinta. Attraverso il confronto tra due generazioni di donne, esplora una vicenda antica che riguarda molto da vicino la protagonista.
Il racconto vuole essere anche un omaggio alla tradizione orale del “raccontare” quale prezioso mezzo di sopravvivenza del passato. Convinta che ogni scrittore, quando scrive, parla sempre un po’ di sé, vorrei ringraziare tutte le donne della mia famiglia, che mi hanno regalato il racconto delle loro vite e mi hanno insegnato l’ascolto, miracoloso potere umano.
Inoltre dedico questo racconto a Silvia, mia cara amica, che mi ha consigliato la dolcezza e donato i dubbi.
(Il confine di un miracolo, di Emanuela Affaticati.)
“Ci sarà dentro qualcuno?”, mi chiedo sempre quando passo davanti a fabbriche, scuole, uffici nei giorni festivi. Oppure di notte.
Sono presa da una strana malinconia nell’immaginare oggetti, strumenti, scale, corridoi vuoti. Quasi soffrissero di solitudine, come esseri umani lasciati a loro stessi, in attesa fremente che arrivi qualcuno a confortarli. E che passino il tempo a ricordare tutto il brusio dei giorni di lavoro: litigi, squilli di telefono, voci frenetiche, cigolii di porte e di macchinari, rumore incessante di carta che esce dalle stampanti.
La Vita. E poi il Buio.
Quando si spengono le luci, le tapparelle si abbassano e ognuno si prepara per tornare a casa. Lasciando più o meno in ordine, tanto si ritornerà il giorno dopo a riprendere il lavoro interrotto. A meno che qualcuno ritorni. Ed entri in queste stanze, quasi di soppiatto, percorrendo locali che, quando non c’è nessuno a occuparli, diventano ancora più ampi e austeri.
A volte vorrei essere io. Entrerei con un po’ di pudore, come quando non si può fare a meno di guardare qualcuno che non sa di essere osservato. Sarei avvolta improvvisamente dal silenzio, come quando si entra in una chiesa in cui non si celebra la messa e, in penombra, ci si sente soli con se stessi e con i propri pensieri. Mi sentirei finalmente a contatto con la mia anima. Proprio nel luogo, quello del lavoro, che spesso usiamo per uscire da noi stessi. D’incanto tutto assumerebbe un’altra dimensione.
Sono questi gli incroci dove il tempo si ferma, snodi del destino. E, come sanno tutti coloro che sono un minimo esperti di magia, è in questi spigoli di realtà che può accadere di tutto. Persino oltrepassare il confine più invalicabile.
(In ufficio il sabato pomeriggio, di Giusy Cafari Panico)
Quando ho cominciato a scrivere “Quando la Luna annuì a Isacco Picossi” avevo diverse motivazioni per farlo: di natura emotiva, personali, di ricerca.
Se da una parte ho sempre ritenuto interessante parlare dell’idea di confine come qualcosa che contiene e separa, dall’altra ho sempre ritenuto interessante anche provare a rendere questa linea di demarcazione sempre meno netta, provando a descrivere quei luoghi a cavallo fra i confini.
Così è nato un racconto che parla dello stare da una parte, o dall’altra. Ma che parla soprattutto del non stare né da una parte, né dell’altra. Come se il confine stesso possa essere descritto come un nonluogo abitabile, una sorta di muro vuoto dentro, nel quale poter vivere.
Isacco Picossi non è altro che un non-abitante di un luogo, vittima di se stesso, dei suoi confini, di coloro che stanno dall’altra parte. E saranno proprio questi ultimi a chiedergli di ridefinire i suoi limiti. Per ridarsi libertà.
Per ridarsi possibilità di vivere.
(Quando la luna annuì a Isacco Picossi, di Angelo Calza)
Io amo il Giappone. Questo racconto però non c’entra niente, col Giappone. Senonché, diverso tempo dopo avere scritto “Il confine” ho letto un articolo sul fenomeno sociale degli hikikomori, gli adolescenti giapponesi che si chiudono in se stessi – e nelle loro stanze – rifiutando la società degli adulti e creandosi un mondo virtuale dal quale non vogliono più uscire.
E allora mi sono accorto che il racconto, nel suo piccolo, potrebbe anche c’entrare, col Giappone, o almeno con questo aspetto della sua società. Un fenomeno che là tocca, secondo l’articolo, circa 850 mila giovani tra i quattordici e i trent’anni, ma che può avere analogie più o meno evidenti con esperienze personali di chiunque, non necessariamente adolescente e non necessariamente giapponese.
Poi, uno può leggere il racconto e dire che non ha niente a che vedere con tutto questo discorso.
È altrettanto corretto, anzi, probabilmente è vero. Anche perché in un racconto l’autore pensa di averci messo dentro certe cose, poi uno lo legge e ce ne trova delle altre. E nessuna di quelle che l’autore pensava di averci messo.
(Il confine, di Pietro Chiappelloni)
Sergio Cicconi non sa resistere alla tentazione e propone la terza storia della saga di Amalia, la cartomante piacentina ‘innamorata dell’amore’, che risolve i più bizzarri casi umani grazie alle sue a volte dubbie arti divinatorie e con l’aiuto di qualche disinvolta, spudorata furberia.
Un personaggio singolare, mai definito a tutto tondo, ma affidato invece all’immaginazione del lettore, che se lo ritaglia come preferisce la sua fantasia.
Dopo “La Cartomante”, che esordisce in “1995 km da Santiago”, la prima raccolta dei Volatori Rapidi (Edizioni LIR, 2007), e “Sotto un ombrellone a strisce gialle e blu del Bagno Casadei”, della seconda raccolta, pubblicata dal gruppo su Libertà (2008), con “Un amore sconfinato” la bella maga Amalia affronta qui, con il consueto garbo, la solita ironia e un tocco di originalità, il tema della loro terza raccolta: i confini.
Argomenti di questo episodio sono due confini, quello dell’amore e quello tra i sessi. Entrambi a volte difficili da tracciare nettamente, spesso ingannevoli, sempre provocatori; come messi lì per invitarti a esplorarli, a sfidarli, a oltrepassarli.
Confini subdoli, inconsistenti. Pericolosi.
(Un amore sconfinato, Di Sergio Cicconi)
Sentimenti grandi e profondi (odio o amore sempiterni, ad esempio) non fanno per me, sono un superficiale; c’è poco da scavare in me, meglio non farlo, c’è il rischio di non trovarci niente.
Attorno ai personaggi dei miei racconti non aleggiano musiche immortali, al massimo ci potrebbero stare le note di una canzonaccia o lo strimpellìo di una chitarra.
È il mio lettore che insiste ad attribuire reconditi e nascosti significati alle mie chiacchierate… sono solo un “figlio di buona donna” che lo imbroglia portandolo per mano dove voglio io, ma che poi si fa perdonare lasciandolo libero di scorrazzare come vuole lui.
E questo vale per il racconto : Via Solferino, civico 31
Ricreo un momento storico: i 600 giorni della Repubblica di Salò, quando “Pietà l’è morta” e i fratelli si uccidevano a mani nude solo perché finiti ideologicamente su opposte sponde ! I “confini” calpestati sono addirittura quelli delle Convenzioni internazionali di comportamento tra belligeranti! In quei giorni di “guerra civile” si praticarono barbare torture e fucilazioni sommarie.
Alla fine del racconto ci si accorge che la Giustizia ha trionfato, ma anche che qualcuno ha pagato il prezzo. Il protagonista della storia, Giovanni, a mangiare la torta con gli altri, quel giorno di festa, purtroppo non c’è.
(Via Solferino civico 31, di Agostino Damiani)
Prima di cominciare a scrivere ci vuole l’IDEA. Almeno, per me è così. Un’idea limpida, unica, originale. Non banale né scontata. Quando mi scoppia l’IDEA in testa, la scrittura mi diverte – e spero di divertire chi mi legge – e mi eccita.
Mi diverto così, io.
Questo racconto che ho scritto per “Confini” non è un’eccezione. L’idea viene poi rivestita – vestita forse sarebbe più appropriato – di antefatti, conseguenze, ambientazione, personaggi, maschere, schegge di vita… anche solo un accenno, poiché l’IDEA non deve essere mai messa in ombra da tutto ciò.
Il racconto che ho scritto per questa raccolta si può leggere da punti di vista diversi. E c’è un po’ di tutto, qui dentro. C’è l’aspetto umano: la delusione, la frustrazione e la rabbia di chi sa che non potrà mai raggiungere l’obiettivo per cui ha tanto sofferto. La pietas e il suo contrario. L’arroganza di chi decide e la pena di chi le subisce, le decisioni. C’è l’incomprensione e la paura del diverso, del nuovo. Ci sono l’assurdità delle regole e la piccolezza degli uomini di fronte alla vera fede.
C’è anche un confine, naturalmente. Ma il confine non è importante.
L’importante è che qualcuno decide dove metterlo, questo confine. Ma come, come decide? In base a quali parametri? Pensando a chi? Pensando a cosa? Chi decide, conosce le conseguenze della sua decisione?
Facile tracciare un confine, facile…
(Con… fine di Francesco Danelli)
Il titolo “Punti di vista” mi è stato suggerito da una persona che ha scelto questa definizione per attribuire un suo significato al termine “confine”; l’ho trovato tra le tante schede distribuite a un pubblico anonimo, chiamato a dare il proprio contributo per elaborare i racconti che appartengono a questa raccolta.
Ho inteso “avere punti di vista diversi”, ossia un differente sguardo sulla realtà. L’ho adottato e declinato secondo una mia personale interpretazione. Gli occhi sono come una finestra da cui ci si affaccia (lo dicevano anche i poeti stilnovisti), ma ciò che colpisce gli occhi arriva dritto alla sede delle emozioni, al cuore, e mette in azione i sentimenti.
Scrivendo questo racconto, ho scoperto che esiste la magia, esistono i miracoli, e per arrivare al fondo e poter amare è necessario recuperare una condizione originaria: la voce interiore, lo sguardo più ingenuo, tornare bambina. Ho scelto di far avvenire tutto ciò su una terra di confine, una terra che sta nel mezzo, come sospesa, un luogo dove la città si mescola alla campagna, dove gli odori e i colori delle colline e dei campi che circondano i condomini giungono a risvegliare i ricordi dell’infanzia.
E c’è il teatro, il “luogo dello sguardo”, una tecnologia straordinaria che l’uomo ha costruito per abbandonarsi alla finzione della scena, e credere che quell’aldilà che sta sul palcoscenico sia una realtà autentica, percepibile da tutti i punti di vista.
(Punti di vista, di Chiara Ferrari)
Questo racconto è un viaggio. Iniziato una notte in cui una voce onirica mi ha svegliato: “certe parole sono catene alle quali proviamo a opporre resistenza”. Ho annotato la frase su uno dei fogli che tengo sul comodino. E ci ho riflettuto per settimane. Dovevo scrivere di confini.
L’istinto mi ha mostrato le sembianze spigolose di un muro. Fatto di parole pronunciate, omesse, ascoltate.
Un anno: il 1989.
E una missione: informare, etimologicamente, conferire forma, rendere accessibile la Verità.
Quattro persone, quattro intrecci dialettici che traducono immagini intime vicino a immagini d’attualità, in un percorso doloroso di messa a fuoco lento ma decisivo. Il parallelismo tra i fatti reali di vent’anni fa e l’oggi viene quasi naturale.
La prospettiva è parziale, perché il lettore possa decidere in quale misura divenire protagonista attivo della ricerca. E chiedersi non solo quali siano le proprie catene, ma quali strumenti possa usare, se davvero lo desidera, per liberarsene.
Questo racconto è dedicato a chi, oggi come ieri, non vuole avere paura di dare forma a un pensiero, di cercarne i contorni, di capirne le sfumature, di accogliere i pensieri altrui, alla luce del rispetto e dell’uguaglianza.
Ed è dedicato anche a chi, come me, crede che non si possa far parte della storia di qualcuno se non si conosce la propria.
(Il potere delle parole, di Alessandra Locatelli)
Non so come sia nato “Verze e mandarini”. E non so neppure come sia nata Clementina, la protagonista del racconto.
Di solito quando inizio a scrivere non so mai dove mi porterà la narrazione: ne ho una vaga traccia in testa che sembra poi svilupparsi quasi autonomamente.
Allo stesso modo anche qui: l’idea iniziale era quella di un personaggio sognante e quasi fiabesco, col nome da mandarino e una passione per la cucina che si trasmette in famiglia. Poi tuttavia Clementina ha iniziato a “ribellarsi”, a svelare i suoi segreti: all’inizio piano, poi in modo sempre più vorticoso e incessante.
Da bambina a giovane donna: dolcezza e cinismo si mescolano all’interno di una personalità apparentemente limpida e senza misteri.
È l’oscurità sotto la luce, il torbido celato dall’innocenza.
Il risultato è senza dubbio diverso dal mio abituale modo di narrare: a tratti mi è parso quasi estraneo, anche se qualcosa di familiare rimane.
Straniante, ma non troppo.
(Verze e Mandarini, di Elisabetta Paraboschi)
“Buonasera, siggiori e siggiore, sono Aglio Cipolla, Aglio di nome e Cipolla di cognome. Mi chiamo così perché nella vita ho soffritto molto e si vede. Se vi avvicinate si sente, anche. Sono un artista di fama mondiale nel senso che farei la fame in qualsiasi parte del mondo.Bene, ma ora cominciamo con il primo espediente!
Se c’è qualcuno dei siggiori o delle siggiore che mi presta cento euro, glielo faccio sparire e poi sparisco anch’io. Nessuno, lo sapevo, avari, avidi. Siete troppo attaccati al denaro. Anche nella finzione”.
Avevo tante idee per scrivere di “Confini” ma quasi per caso mi sono ritrovato a parlare di me.
Perché il mio lavoro spesso si mescola con le mie passioni e le mie passioni diventano lavoro, oltrepassando, appunto il confine. L’essere umano si fa personaggio e il personaggio sovrasta l’essere umano. Proprio come in questa presentazione.
In realtà sono solo uno a cui il lavoro “normale” va tremendamente stretto.
Per realizzarmi appieno, riempio i miei vuoti esistenziali, inseguendo un sogno: il teatro, senza troppi confini, tranne quelli dettati da uno scarso talento.
Di una cosa sono certo: qualsiasi cosa faccia cerco di dare tutto me stesso.
Alla faccia dei Confini! Soprattutto quelli territoriali e sociali.
Perché nessuno può scegliere dove e come nascere.
(Alle volte basta un grazie, di Federico Puorro)
Ammetto che scrivere questo racconto sul soprannaturale ha costituito una difficile sfida con me stessa. La scelta dell’argomento è stata dettata non dalla voglia di stupire, ma da un’esigenza interiore: tentare di sondare il mistero più grande di tutti, la morte.
L’ultimo, autentico tabù rimasto ancora inviolato e pertanto capace di affascinare l’uomo. E d’intimorirlo in uguale misura.
La morte viene da molti percepita come la fine di ogni cosa: uno spesso muro nero, inamovibile e inesplorabile.
Io immagino invece che rappresenti un inizio. E che la linea di confine posta tra i due mondi sia sottile, impalpabile come un velo in grado talora di sollevarsi.
Come accade in “La promessa”: “… Solo il cuore, forse, potrà aiutarci a comprenderlo…”
Credo che il dono più prezioso che un uomo possa fare a un altro uomo sia quello di narrargli una storia. Ecco il motivo per cui amo tanto scrivere.
Mi piace pensare a questo racconto come a un regalo: un piccolo spiraglio di luce e di speranza offerto a quanti vorranno leggerlo e lasciato, ovviamente, alla libera interpretazione di ognuno.
Una favola scaturita dalla mia fantasia…? “Forse”.
Una leggenda popolare…? “Potrebbe essere”.
O il resoconto di un episodio realmente accaduto…? “Chissà”.
Mi sento solo di affermare che in tutto ciò che scrivo c’è sempre una parte di verità… Una parte molto consistente.
(La promessa, di Doriana Riva)
Un uomo, una vita presente, una passata.
Un uomo guidato nel suo percorso interiore da ombre riemerse dal passato col loro carico di ricordi, profumi, parole, sapori.
Un viaggio condotto da silenti presenze, vere protagoniste del racconto,che porteranno il Signor Maiocchi a ritrovare un tempo a lungo dimenticato, rimosso, ma pronto a riprendere il sopravvento.
I profumi, i ricordi, i sapori di una vita semplice accompagneranno il Signor Maiocchi in questo viaggio verso la riscoperta di piccole emozioni e sensazioni quotidiane, a lungo dimenticate. Per ricordarsi che le cose più semplici sono piccole gemme da conservare in noi quando la vita ci porta verso altre direzioni.
E che si può sempre cambiare, varcare il confine, perché il confine è solo una linea che si può oltrepassare.
Ad ogni passo.
(Il profumo delle fragole, di Monia Sogni)
Corrado, il protagonista del mio racconto, fa parte di un numero.
Un numero insieme ad altri numeri che troppo spesso di questi tempi ci raggiungono nelle notizie dei telegiornali e nei titoli dei quotidiani. Un numero come i “1000 cassaintegrati della Fiat di Melfi” o i “4000 esuberi di Alitalia”. Numeri che ormai costituiscono un rumore di fondo a cui purtroppo ci stiamo abituando. A volte questi numeri sono piccoli e non hanno nemmeno l’attenzione delle prime pagine. A volte sono solo i quotidiani locali a informarci sulle loro vicende.
Nel mio racconto ho voluto dar voce a uno di quei numeri, a una di quelle vite.
Ho voluto raccontare cosa può accadere quando si passa quel sottile confine fra un piccolo benessere e un progetto di povertà. Un terreno inesplorato che Corrado cerca di percorrere da solo. Ma sulla sua strada inciampa in una verità: le cose intorno a noi non sono neutre.
A volte nemmeno i biscotti lo sono, e scoprirlo può essere molto amaro.
“I biscotti sono una cosa neutra” è quindi sì un viaggio dentro al dramma collettivo, ma è soprattutto un incontro personale e silenzioso con le proprie debolezze, con le proprie umane fragilità.
Nella dedica, che è parte integrante del racconto, si racchiude il mio intento di dar voce ai risvolti personali che si nascondono dietro a silenziose rinunce.
La frase finale, titolo di una famosa canzone di protesta portata al successo da Joan Baez, racchiude invece la mia speranza e il mio augurio come uomo alle vite silenziose come quelle di Corrado.
(I biscotti sono una cosa neutra, di Ottavio Torresendi)
La prima immagine che la parola “confine” mi ha portato alla mente è stata un cerchio disegnato per terra, il cerchio magico che i bambini pensano non possa essere attraversato dal male.
Credenze infantili che spesso fanno sorridere i grandi che non sono in grado di interpretare i segni.
“Emma”, come una poesia, procede per immagini.
È nata così, fiorita spontaneamente da quello stesso terreno che viene seminato dalle cose che impari, senza saperti spiegare perché alcune si radicano a fondo mentre altre vengono spazzate via. D’istinto.
Emma aveva “occhi di carta assorbente”, poi un amico, per scherzo, mi ha suggerito la carta moschicida. Il mio background così casualmente solleticato, ha fatto il resto: un nome antico che evoca atmosfere britanniche, a metà strada tra Agatha Christie e il Giardino Segreto, e che è difficile non associare al tè delle cinque e uno sfondo che potrebbe essere l’antefatto di Dogville, hanno fatto virare il racconto verso l’horror, apparentemente cinico.
Ma Emma evoca storie, motivazioni e suggestioni che possono essere diverse da persona a persona e credo che a voler mettere in luce le ombre e le ragioni da cui una poesia o, come in questo caso, un racconto breve, nasce, e di cui si compone, si rischi di perdere ciò che di più intimo questa/o può suscitare, oltre a quello che di più evanescente e intuito può regalare.
È probabilmente meglio che queste restino nella semioscurità di un limbo di simboli capace di dare del tu al nostro inconscio e che riempie le piccole intercapedini che si schiudono tra razionale e irrazionale…
(Emma, di Melissa Toscani)
Ho sognato un anacoluto che m’inseguiva.
Io scappavo, avevo le gambe molli e nessuna possibilità di reagire con una poetica decente. È più o meno così che ho cominciato a scrivere Sole Rosso.
Nascondendomi in monologhi interiori e indiretti liberi, cambiando i punti di vista e tagliando i dialoghi, senza però riuscire a ritrovare me stesso né a restituirmi all’ipotetico lettore e abbandonandomi infine a romantiche metafore, desideroso di raccontare l’effetto delle ombre, smanioso di parafrasare il rumore dei passi, ansioso di chiosare sul colore del tramonto.
Scrivere è un malessere che non lascia scampo, è una fitta che brucia le viscere, è l’impotenza di fronte al grido di un uomo che raccoglie i brandelli del figlio stracciato dalla guerra.
Scrivere è sporcare e scoprire che l’impasto inchiostrato non è pane, non è sale, non è acqua e mi spiace non riuscire a costruire un romanzo per ogni vita. Il tempo e lo spazio sono i miei limiti.
La scorsa settimana, in autobus, tornavo dal lavoro e leggevo. Ero triste. Leggevo Delitto e castigo di Fedor Dostoevskij e, nonostante avessi letto il giorno prima il capitolo cinque, non riuscivo a dimenticarlo. Mentre come un automa imperfetto sfogliavo a ritroso le pagine, mi veniva su un magone infantile. Il sogno di Raskolnikov custodiva il senso di una vita intera, il mistero della forza rigeneratrice del bene al di là d’ogni malvagità e di quel testo avrei voluto essere una virgola, una congiunzione, piuttosto un refuso, pur di lasciarmi inghiottire da quel portento.
Fossi stato capace avrei pianto: “Non siamo che parole” invece ho detto a una signora che si faceva largo con le borse della spesa. “Sarebbe meglio che lo fossimo”.
Per questo scrivo. Sempre.
(Sole Rosso, di Luigi Tuveri)